BEH, OGGI ANCHE GLI ASINI PARLANO». OPPURE: «ABBI PAZIENZA MA NON ACCETTO LA DISCUSSIONE COME SE FOSSIMO AL BAR DELLO SPORT». Ma anche: «Spegnete quel cavolo di iPhone o cellulare che sia. Sei un chirurgo? Un anestesista rianimatore? E allora basta. Non stai salvando il mondo!». Chi segue da anni i miei editoriali, queste affermazioni le avrà lette, credo, centinaia di volte. Chi mi conosce personalmente mi avrà sentito pronunciarle migliaia di volte nella vita di tutti i giorni, in varie occasioni, dinanzi a dottori o meccanici, giornalisti o carpentieri, avvocati o direttori, uniti da un comune denominatore: erano degli imbecilli e minchioni (come insegna lo Zingarelli, «persone sciocche e credulone»). Sia chiaro, affermazioni come questa le faccio solo ed esclusivamente confrontandomi in materie che conosco, dove ho buona preparazione ed esperienza, usando sempre la sacra fiamma del buon senso. In altri casi, dove capisco che la o le persone sono preparate, ma altresì distanti anni luce dalle mie esperienze e dal mondo attuale (questo mi succede solo con personaggi colti e anziani) per vari motivi lascio perdere. Primo, per rispetto dell’età, perché persone che hanno più di 80 anni, difficilmente riesci trascinarle in un confronto sull’attualità: non la conoscono, o meglio affrontano il presente al passato. Secondo, per la mia salute, perché avendo poco tempo (anzi, niente), non posso permettermi di perderne in discussioni che non portano a nulla. Preferisco tenermi quel tempo per quando sarò anch’io anziano, per allungarmi semmai, di qualche decina di minuti in più, la vita.
Devo ammettere che mi hanno sorpreso, positivamente, le affermazioni di Umberto Eco fatte all’Università di Torino («I social network? Hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli»). È la prima volta che mi trovo d’accordo con lui. Vista la reazione del mondo Internet, mi sembra di capire che la maggior parte dei minchioni non l’ha però compreso, anzi. Farebbe bene Eco (possiamo editarlo insieme e vendere il progetto all’Onu per difendere l’uomo dall’involuzione galoppante…) a riscrivere il suo discorso, tramutarlo in un libro educativo, di cultura e buone maniere, da distribuire nelle scuole, nelle università, nelle redazioni, negli uffici marketing, negli uffici stampa, più una versione tascabile, modello porta cipria, da mettere in tutte le borse di tutte le pierre del globo. Un vero e proprio saggio di urbanità mondiale. Perché tra pochi anni avremo una società planetaria fatta per lo più da zombi cerebrolesi. Perché, come sempre tutto serve, tutto è utile, ma dipende dall’uso che se ne fa. Quante volte osservo nei ristoranti gruppi di ventenni o quarantenni, che siano essi ragazzi o ragazze, poco cambia. O coppie mano nella mano dinanzi a una candela: neppure si guardano, parlare men che meno. Tutti con il loro smartphone tra le mani. Tra una posata e una portata senza mai staccare lo sguardo, sempre in contatto con il mondo. Scherzi? Magari devo salvarlo! Quello che conta è non separarsene, non perdere il contatto con la linfa, il cervello: il mio smartphone, la mia vita. Tutto dipende da lui. E quelli che gli sono vicini? Della serie «chi se ne frega»? Quando poi squilla, con i versi più improbabili, si fermano, si guardano attorno con circospezione, poi rispondono in modo che li sentano bene anche in cucina: «Mi hanno nominato. Tocca a me!».
Poveretti. Anche se in mezzo al caos e a centinaia di persone li trovo veramente tristi, soli, maleducati («sfigati», direbbero loro), beh sì, veri sfigati, lo dico anch’io. Eppure, anch’io uso dalla mattina alla sera, alla notte, l’iPad, il cellulare, il computer, Internet, senza però esserne schiavo e plagiato. Lo uso per la mia professione. Non uso Twitter né Facebook. Come dicevo, non ho tempo né voglia di discutere e rispondere a conversazioni inutili. Non ho tempo per vedere amici o andare a correre in kart e in macchina, figuriamoci se mi passa nell’anticamera del cervello di scrivere e rispondere a persone che non ho mai visto, mettendomi a dialogare negli spazi di 140 caratteri Twitter… No grazie! Chi vuole conoscermi, passi alla sera, preferibilmente sul tardi, da casa mia e mi citofoni. Lo confesso, e senza vergogna. Sono e sono rimasto un uomo analogico. La superficialità, la mancanza di radici e di memoria del digitale non mi appartengono. Non è un fatto di generazioni, di incomprensione della potenza di tutta questa tecnologia che ha riempito ormai ogni attimo della giornata. È, semplicemente, il piacere di rimanere legato alla realtà. Alle esperienze. Al bello di toccare un oggetto, o un viso, di guardare negli occhi la persona con cui parlo. Il bello di uscire, vedere, incontrare, assaggiare, comprare, indossare, condividere. Maturare esperienze sul campo, che siano mie, che ne possa far tesoro. In questa ostinata voglia di usare le mani, e non solo le dita per digitare su uno schermo touchscreen, mi sento molto vicino a Walter Bonatti, il grande alpinista, che ho voluto in copertina per celebrare la sua grande impresa, la presa del Cervino lungo la parete nord, e per celebrare anche il suo storico «avversario», il Cervino appunto, a 150 anni dalla sua prima conquista. Quando Bonatti affrontava una scalata in parete prendeva corda, chiodi, martello; indossava scarponi. Si aggrappava alla roccia con le sue mani, e su, saliva, lui solo contro la montagna. Una sfida alla pari dell’uomo con la natura, dell’uomo con se stesso, con i propri limiti e con il proprio coraggio. Al ritorno dalle sue imprese Bonatti intratteneva i suoi amici con fantastici racconti, tanti li scriveva anche, sotto forma di reportage, per i grandi giornali. Aveva dei ricordi vividi, aveva vissuto delle emozioni, si è conquistato la celebrità con la fatica e il sudore. Solo se vivi davvero con passione hai qualcosa da dire agli altri. La vita è questa, per me. Ed è fuori da Facebook.
Di Franz Botré
Da Arbiter 148 (luglio 2015)