Chi da anni segue Monsieur conosce il mio pensiero di vita, fatta di poche regole, basate fondamentalmente sui valori. Regole precise, antiche, coerenti, che perseguo senza mai farmi condizionare o trascinare dalle opinioni della maggioranza che mi circonda, né tanto meno dal pensiero dei cosiddetti opinion leader, i professionisti della comunicazione. Anche per questo, mi trovo spesso ad andare contro corrente. È un fatto di coerenza, non di forzata ribellione. Che porto in tutto quello che dico e, soprattutto, che faccio. Come questo numero. Basta leggere con attenzione gli strilli di copertina, per intuirne la traccia: un vero e proprio sentiero lungo il quale il giornale vi prende per mano e vi conduce nel mondo dell’essenza maschile, oggi. Dando risposta da più angolature, attraverso diversi stimoli visivi e di pensiero, a una domanda semplice ma estremamente attuale: che cosa vuol dire essere uomo? Esserlo cioè al di là degli stereotipi che ormai ci hanno saturato, delle esaltazioni pacchiane ed esibite della «maschilità» da una parte, e dell’annullamento galoppante dei «gender» che invece avanzano ovunque nel discorso sociale, politico e culturale dall’altra. Esserlo sempre, salvaguardando e difendendo i codici maschili di vita, quegli indizi primari che danno ragione del tutto. Come, per esempio, lo smoking.
Non solo un dress code, ma l’espressione di una personalità, di una cultura ben precisa. Poco importa se in Italia e in Francia lo chiamiamo appunto smoking, se negli Stati Uniti viene usata la parola tuxedo, o nel resto del mondo «dinner jacket»; non è una questione di nomi. Quello che conta, il fine, è come sempre l’essere e non l’apparire. La consapevolezza del fatto che ciò che indossiamo è un vero codice di eleganza, senza tempo. Una divisa perfetta, che rivela l’essenza della pertinenza di un uomo. Troppe parole. Mi fermo qui, perché aggiungere sarebbe superfluo. È sufficiente, anzi è meglio, chiudere il giornale e tornare a guardare l’immagine di copertina. L’eleganza, la gestualità, la fierezza e il portamento del passato riproposto nella contemporaneità. Un’eleganza eterna. Un disegno che è stato reinterpretato da Guido Rosa seguendo con fedeltà l’originale apparso sulla copertina del numero di dicembre del 1936 di Arbiter, la rivista dell’uomo elegante. Un’immagine di quasi 80 anni fa, eppure che ancora lascia al palo, in quanto a equilibrio, armonia, bellezza, qualsiasi immagine «fashion» che propongono oggi i vari esperti di comunicazione. Capite che cosa intendo? Certi canoni bisogna averli dentro, ti devono appartenere, non sperare di riuscire a rubacchiarli scopiazzando qui e là o cercare di inseguirli per poter essere «alla moda». Devono essere passi accumulati lungo una vita. E devono rispondere a quella radice che ciascuno ha dentro di sé. Discorso che vale per l’uomo quanto per la donna. Come raccontiamo attraverso le storie e le scelte d’eleganza delle Jackie di ieri e di oggi: anche in questo caso canoni senza tempo, perché perfetti da sempre e per sempre.
Sul valore di queste mie radici rifletto spesso, conscio di avere una grande fortuna: quella di avere origini d’Oltralpe, sono Mitteleuropeo d’origine e di spirito, ma con un Dna profondamente made in Italy. Ed è proprio questa consapevolezza che mi consente di vivere nel e per il mondo tante bellissime esperienze, in un incontro e in uno scambio continuo di culture. Aperto a tutte, anche se non ho mai negato quella che, da anni, è l’ammirazione che sento per due grandi nazioni europee: l’Austria e la Germania. Nell’idea dei più, e anche nelle cronache di tanti giornalisti superficiali, che vivono di provocazioni più che di pensiero, latinità e germanicità rappresentano due mondi opposti e inconciliabili. Quanta miopia c’è in questa contrapposizione artefatta! Come dico sempre, non lasciamoci ingannare dagli storiografi d’accatto, andiamo oltre lo stereotipo dello «scontro» tra la colta Roma travolta dall’impeto dei «barbari», e torniamo a leggere la storia. Dal III secolo in poi quella tra mondo latino e mondo germanico è stata una storia di incontro e di scambio, l’innesto dell’energia nordica nella cultura mediterranea, latina e greca; è la miscela che ha posto le basi dell’Occidente così come ancora oggi lo conosciamo, e in cui ci riconosciamo. Con un passo in più. Oggi, come lo sono stati gli antichi Greci e poi i Romani allora, i tedeschi sono il faro guida dell’Europa. Lo sono con la loro disciplina, la loro profondità, grazie allo sviluppo di un pensiero filosofico forte che a partire dal ’700 ha elaborato il linguaggio di Socrate e Platone per dare forma al pensiero dell’era moderna, quel pensiero che va da August Wilhelm von Schlegel a Georg Wilhelm Friedrich Hegel sino al padre dell’esistenzialismo, Martin Heidegger. Lungo i secoli, grazie a questo continuum storico e culturale, e sempre perseguendo uno «spirito di bellezza», le genti tedesche seppero produrre opere uniche nelle diverse arti, pensiamo anche solo a Mengs o a Tischbein nella pittura, o alla musica, con i Wagner e i Beethoven… Uno spirito che non era delle élite, ma apparteneva al «Volk», al popolo. Uno spirito che gli ha consentito di affrontare e vincere qualsiasi sfida, superando muri apparentemente insormontabili. Il muro del classicismo, con l’elaborazione di un nuovo percorso culturale che ha aperto le porte alla modernità, il muro di ben due guerre mondiali, e infine il muro fatto di cemento armato e di filo spinato che per 28 anni ha diviso in due la città di Berlino. Nonostante questi muri della storia i tedeschi sono stati capaci di rimanere uniti nello spirito, dimostrando di essere in maniera vera e profonda un «popolo»: la loro forza, che oggi fa masticare amaro tutti gli altri, sta tutta lì. Non sono le scelte di Frau Merkel, non sono i dati, le manovre e i capricci dell’economia. Svegliamoci, giù dalle brande! Proviamo ad andare a fondo, a capire perché la Germania è oggi quel che è. Facile lamentarsi, o criticare. Come dico sempre, prima di criticare bisogna fare. Con la Germania ci lavoro da tempo, ho imparato a conoscerla. Nella concezione della società e della socialità, così come nella vita e nel lavoro, i tedeschi hanno un approccio più progettuale, pianificatore, solido e profondo. Sin da quando scatta la scintilla dell’idea, e iniziano a strutturare un progetto, sanno valutare le difficoltà, come affrontarle e come superarle. In un continuo lavorìo di miglioramento progressivo, fino ad arrivare, a progetto concluso, a raggiungere la perfezione. A differenza per esempio dei Giapponesi, i quali perseguono il miglioramento infinito, i tedeschi sanno fin dall’inizio da dove partono e dove vogliono arrivare. C’è un punto d’arrivo: la perfezione.
Questa metodologia di approccio al lavoro discende da una precisa impronta culturale. E si rispecchia anche nel modello su cui la Germania ha impostato le cosiddette «relazioni industriali»: se esiste una perfezione, allora è naturale che tutte le parti in causa operino affinché la si raggiunga. Capite bene come in tutto questo il concetto di «contrapposizione» non possa proprio trovare spazio. È evidente proprio guardando al «modello tedesco» quanto la contrapposizione sia un concetto vecchio e superato, che appartiene a un secolo ormai sepolto: perché le cose vadano davvero avanti, e non in circolo (o in un burrone!), tra azienda e lavoratori ci vuole partecipazione a un fine comune. Ci vuole «cogestione». È questa la parola chiave che troverete in un importante servizio che pubblichiamo in questo numero, e che attraverso il racconto di un’azienda tedesca attiva in Italia, e con un forte Dna italiano, dà la prova di come tutto questo ragionamento abbia un’applicazione possibile nella realtà, e non sia pura filosofia. Perché estremamente concreto, e semplice, è il principio: se un’azienda va meglio, ci guadagnano tutti. Senza mai dimenticare che quel che conta nel business è la sostanza, e ciò che paga è la serietà. I risultati sono solo una conseguenza di tutto questo. Serve dunque oggi più che mai andare al di là delle contrapposizioni e dei muri. Il racconto del positivo incontro tra italianità e germanicità, della capacità di mettere a frutto il meglio di entrambe le culture, è la testimonianza di questo: della possibilità di dar vita a una «macchina perfetta» di pensiero e di azione, per forgiare un carattere capace di affrontare sempre la vita a viso aperto.
In allegato a questo numero di Monsieur trovate un cadeau. Un oggetto che rappresenta, per me, quel che oggi significa fare editoria: applicare cultura, intelligenza, fantasia, pertinenza ed efficacia per trasmettere conoscenza con l’emozione. Cercando, attraverso l’etica, di costruire l’estetica del giornale, per dare al lettore il massimo, il famoso «QE», Qualità ed Emozione. Si tratta della grande affiche a tre battenti che ho pensato per raccontare la storia di Patek Philippe, Maison che compie 175 anni. Come tradurre in maniera efficace una storia così ricca e fatta di oggetti splendidi, di storie, di persone? Sono partito da un’idea: la grande attesa che vivono tutti i bambini durante il mese di dicembre, il Natale, i doni e, oggi, i «toys for boys», per gente come me che ha ancora voglia di credere nel valore del gioco. E ho ritrovato quell’oggetto che da sempre accompagna questo mese speciale: il calendario dell’avvento. Ogni giorno una finestrella da aprire, e dietro a ogni finestrella una sorpresa. Tradurre in queste 31 emozioni i 175 anni di Patek Philippe è stato un esercizio di cultura. Sfogliare tutti i libri e i cataloghi relativi alla Maison, selezionare i modelli migliori, soppesare, scegliere. Spiegare poi ai tecnici, agli stampatori, che cosa avevo in mente, coinvolgerli in questa sfida mettendo in campo le intelligenze migliori, la cartotecnica, le macchine e i materiali migliori. Un’attenzione maniacale nel dare forma alla bellezza attraverso la tecnica professionale che avete già avuto modo di toccare con mano quest’anno nei due numeri di Orologi, con le lavorazioni d’arte della copertina di maggio dedicata a A. Lange & Söhne e della copertina di ottobre dedicata a Rolex. Quando sono arrivate sul mio tavolo le prime copie di questo cadeau ho capito che ne era valsa la pena. Consideratelo un piccolo pensiero per il Natale in arrivo. Auguri!
Editoriale di Franz Botré da “Monsieur” n. 141 (dicembre 2014)