PARLARE DI BERLUTI È COME PARLARE DI UNA PARTE DEI MIEI ULTIMI 20 ANNI DI VITA, e non solo. Attenzione, non fatevi ingannare dalla copertina: non mi riferisco al mio rapporto e conoscenza diretta con quel genio ch’è stato Alessandro Berluti da Senigallia. Chi mi ha fatto conoscere, apprezzare e amare la sua sapienza artigiana e la sua capacità imprenditoriale è stata Olga, nipote di Talbinio, figlio di Torello, a sua volta figlio di Alessandro. Olga è la discendente di quarta generazione dell’impresa, allora impresa di famiglia, Berluti. Alessandro appartiene a quella stirpe del genio italico, come Savorgnan de Brazzà, come Riccardo Gualino ed Enrico Fermi, Angelo Belloni o Giorgio Ambrosoli o Pietro Barilla, giusto per citarne alcuni. Personaggi illuminati, in ambiti e tempi diversi, che in questi anni avete potuto incontrare e conoscere sulle pagine del nostro giornale. Studiandoli e leggendoli, ammetto di avere imparato molto. Veri fulcri e cardini di una società pulita, sana e coraggiosa. Razza ormai in via di estinzione, in questa nazione dove il successo è basato solo sulle conoscenze colluse, dove importante è l’apparire e il potere è dettato dal dio denaro. Guadagnato? Come? A discapito di chi? A nessuno importa, in un Paese dove la memoria storica è stata dal ’43 cancellata. Dove gli imprenditori si sono tramutati in rapaci prenditori. Quella razza estinta va raccontata ai giovani, per far capire loro la via giusta, senza scorciatoie, perché siano guidati dal coraggio di saper osare, di mettersi in gioco, per andare oltre. Inseguendo il proprio credo. Come fece nel 1895 Alessandro Berluti, che partì dalle Marche per inseguire il suo credo. Lo trovò a Parigi. Conquistò la città, dando vita a una dinastia sinonimo di eccellenza calzaturiera italiana. Negli anni 80 e 90 andavo spesso a Parigi. Quando mi trovavo nei pressi degli Champs-Élysées non perdevo mai l’occasione di allungarmi in rue Marbeuf per ammirare l’atelier Berluti. Scrutavo e rimiravo centimetro per centimetro le sei vetrine, scarpa dopo scarpa, con passione e ammirazione per quelle opere. Poi leggevo il prezzo. Sospiravo, facevo spallucce e rimandavo l’acquisto alla prossima occasione. Forse, vedremo… semmai. Credo di essere stato odiato dai commessi per le volte che ho sporcato le vetrine con la punta del mio naso. Sta di fatto che una mattina di primavera del 1995, dopo aver visionato accuratamente le vetrine, anche le semenze delle suole, apro la porta d’angolo ed entro nel tempio Berluti. Il negozio era deserto. Il mio cuore volava alto come un falco. Solo due donne. Una, quella dinanzi a me, mi saluta e mi invita a osservare da vicino le opere; l’altra mi ignora, rimane in ginocchio a pulire con uno straccio di lino la poltrona di pelle a lei vicina. Giro, osservo, mi rigiro vado nell’altra sala, prendo tra le mani, con molta delicatezza e rispetto (finalmente!) una chaussure, l’ammiro, la sfioro e la ripongo. Così per un po’ di volte. Poco dopo la signora che puliva la poltrona in pelle rompe il silenzio: «Lei è italiano, vero?». Annuisco con un sorriso. «Ho visto come appoggia, male, il piede e come cammina. Non guardi questa, quella e l’altra scarpa. Non fanno per lei. Osservi con più attenzione quei due modelli, sono i soli che s’adattano al suo piede». Lì per lì, mi domandai chi le avesse chiesto qualcosa. Ma compresi che aveva capito tutto in quattro minuti. Iniziai a coinvolgerla, a porle delle domande, tecniche, di stile, di servizio. Rispose e soddisfece tutte le mie richieste. Bravissima e preparatissima. La ringraziai per la gentilezza e il tempo dedicatomi. Mi sorprese perché mi incalzò, raccontandomi come e dove aveva imparato tutto. «Caro Monsieur Botré, gli uomini li ho conosciuti, capiti e accuditi mettendomi, in ginocchio, ai loro piedi. Ascoltandoli e osservandoli. Piacere, sono Olga Berluti».
Comprai le mie prime francesine della Maison, colore obergin, le stesse che mentre scrivo porto ai piedi. Oggi ancora più belle di 20 anni fa. Da quel momento tra me e Olga è nata una gran bella e sana amicizia. Col passare del tempo poi allargata al professore, Guy, ad Antonella, Alessandro, Cecilia. Lei, come scrissi 15 anni fa, è stata una delle muse che hanno ispirato il mio sogno di indipendenza. Con lei abbiamo diviso cene, pranzi, viaggi, discussioni. Uno scambio culturale indipendente, tra simili; un asse da Milano a Parigi legato dal rispetto, dall’intellettualità, dall’orgoglio di pertinenza e dalla voglia di conoscere, esplorare. Passando dalle serate organizzate con il suo Club Swann, fatto d’incontri, cene con cirages al Ritz, o in Marbeuf, a quelle organizzate da me per far conoscere la cultura Berluti in Italia. Da Napoli a Cortina, da Milano a Firenze nei giorni di Pitti. Senza mai chiedere nulla, con una grande voglia di donare, di crescere, esplorare, per andare oltre, sempre insieme. Su piani diversi ma vite parallele che qualche volta si incontrano. Anche se passano mesi e anni, quando ci sentiamo e vediamo è come se ci fossimo visti e parlati il giorno prima. Lei ha scritto per noi per più di sette anni l’Uomo Extravagante, senza mai chiedere nulla. Più di 80 pagine di storie ed esperienze di uomini unici al mondo per i quali lei, con dedizione e amore, ha creato vere forme d’arte che soddisfacessero e gratificassero il loro io. Noi, beh, noi gli abbiamo dedicato più di 13 servizi in 15 anni, senza mai chiedere nulla a lei. Cercando sempre un minimo comune denominatore per arricchire e soddisfare i lettori. Tutto quel patrimonio di cultura e di sapere che sta nel marchio Berluti è stato raccolto e valorizzato da un grande gruppo francese, e bisogna ringraziare Monsieur Arnault per come ha saputo tutelare questa storia che affonda le sue radici in un territorio, le Marche, dove ancora oggi continuano a crescere talenti della calzatura: 1.500 imprese a forte matrice artigiana che continuano a portare nel mondo questa particolare eccellenza del fatto in Italia. Un patrimonio da riconoscere, e da raccontare.
Da Arbiter 147/III giugno 2015