Chi da anni segue Monsieur, o mi conosce, sa che detesto il concetto del politically correct, e ancor più quello della par condicio. Sono frutto dell’ipocrisia di questa «moderna» società, sempre più dilagante e di moda, in questi decenni. Lo vivo quotidianamente sulla mia pelle ogni qual volta chiedo un’opinione su una scarpa, una macchina, un sarto, un film, un quadro. L’atteggiamento delle persone, sollecitate a esprimere un parere, un giudizio, una critica, è di non dire mai quel che pensano veramente, ma rispondono cautamente in modo occultato, parsimonioso, melenso, facendo attenzione a esprimere giudizi che non danneggino nulla, niente e nessuno. L’importante è seguire il parere e il giudizio dei più, delle masse, per non rischiare di essere impopolari e contro corrente. Sono gli uomini che solitamente definisco «millepiedi», che sanno stare con due piedi in 500 scarpe. Il mio rapporto con l’arte è forte, intenso. Spesso, lo confesso, da pelle di cachemire, da magone, dal tanto riesce a emozionarmi. Parlo però dell’arte vera, quella esente dalle dipendenze delle mode o delle mafie, o delle lobby religiose, spesso sottomessa alle esigenze politiche, economiche o di business, di questa moderna società. Devo ammettere che quella che viene definita arte contemporanea mi appaga e piace al 20%; il resto, come diceva il mitico Fracchia: «È una boiata pazzesca!». La capisco, o almeno mi sforzo di apprezzarla, con razionalità, prendendo accuratamente le debite distanze dai giudizi dei critici, osservando e studiando accuratamente la storia dell’autore, le sue capacità tecniche, il tema, l’interpretazione, il soggetto, il contesto storico. Quando mi pongo al cospetto di una nuova opera, intuisco immediatamente se è bella, se mi dà piacere, o no. Mi basta leggerla, guardarla per capire. È come quando mangio un babà: un profondo senso di serenità e soddisfazione pervade e appaga i sensi, tutti. Del resto, come scriveva Marcel Proust: «è stato detto che la bellezza è una promessa di felicità (Stendhal); inversamente, la possibilità del piacere può essere un principio di bellezza». Ecco, sta proprio qui il punto, la maggior parte di queste «opere» sono prive di bellezza, non sono eleganti e non mi danno proprio nessun piacere. Per me si tratta di creatività allo stato puro. L’arte la concepisco in un modo diverso.
Ma come può un’opera essere riprodotta in serie? Non scherziamo, l’oggetto artistico deve essere un pezzo unico, inimitabile, irriproducibile come il pensiero e la mano dell’artista che lo hanno plasmato. Deve incutere felicità e bellezza intrinseca. Tutto quello che, per esempio, non percepisco certo da un manichino impiccato a un albero, né da una macchina che produce escrementi, né da uno squalo tagliato a fettine, né da un barboncino fucsia gigante, né tantomeno in una latta di zuppa Campbell’s, reinterpretata proprio dal numero uno dei contemporanei, Andy Warhol. O, ancora, gli ingrandimenti dei fumetti di Roy Lichtenstein. Questi ultimi due artisti non mi dispiacciono, eseguono creatività applicata alla grafica; sono forme di espressione contemporanea che capisco perfettamente possano piacere, che possono essere occasioni per un ottimo investimento per alcuni, e per altri un’idea per arredare splendidamente casa. Ma per cortesia, non confondiamoci: questa è arte applicata. Opere totalmente prive di spiritualità. Semmai espressioni di forzate provocazioni sociali legate all’attualità, più che alla contemporaneità. Puri esercizi di comunicazione che esaltano al massimo la creatività, la grafica, la perversione, spesso di cattivo gusto, che troviamo non solo nell’arte, ma anche nel cinema, nella musica, nella fotografia e nella pubblicità. L’importante, e il fine, è stupire, scuotere le masse, attirare l’attenzione e far parlare tantissimo i media per avere, attraverso l’esasperazione della comunicazione, il consenso totale delle minoranze con la conseguente vidimazione e approvazione di gran successo, d’obbligo, per le masse. Non vorrai per caso pensarla in modo diverso? Saresti out, vecchio, superato.
Una rottura degli schemi tradizionali attraverso la provocazione, come espressione d’arte. Esattamente come lo fu il Futurismo di Marinetti, ma allora,il movimento si basava su altri valori. Era l’etica di un pensiero, di una cultura della società che ne determinava l’estetica. Oggi la gente è abituata a guardare più che a leggere. Si nutrono di immagini e didascalie, basta osservarli, sempre con lo smartphone tra le mani a fotografare se stessi, in tutte le situazioni, fotografando piatti al ristorante, amici, i loro piedi, i loro capelli; tutti ormai ego-maestri. Una sindrome che ha contagiato un po’ tutti, in una società omologata e massificata, dove tutti vogliono distinguersi per sembrare ciò che non sono, una mania dell’apparire che esalta la povertà del valore estetico su quello etico. è per questo che mi piace sempre di più l’arte implicata, che esprime e mette in evidenza le radici profonde, fondate sui valori della vita dell’uomo. Quell’arte che sa trasmettere e suscitare emozione, eleganza, bellezza come, per esempio, la mela di una natura morta del Caravaggio: l’artista non fa che aggiungere bellezza a un frutto già perfetto! Facile e scontato sarebbe sostenere che preferisco l’arte che va dal Cimabue a Giotto, da Leonardo a Michelangelo, o quella di Vermeer, Canaletto, sino a Bruegel, Rubens arrivando a Manet a Degas, o quella italiana di Balla, Boccioni, sino a Cremonini, Merz… Già, scelta scontata, troppo facile. Così come non è facile per me apprezzare e capire l’arte attuale, il suo vero valore in un mercato mai stato così florido, con scambi da centinaia di milioni in poche ore. Una domanda mi viene d’obbligo: ma chi ha trasformato l’arte in un business? Chi crea i nuovi Warhol? Dove sono e chi sono? L’amico Giuseppe Frangi mi ha risposto domanda dopo domanda. Grazie. Ne prendo atto, ma continuerò ad affrontare l’arte sempre alla mia maniera, perché esistono due modi per apprezzarla: il primo consiste nel non apprezzarla, il secondo nell’apprezzarla con razionalità.
Editoriale di Franz Botré da “Monsieur” n. 138 (settembre 2014)