Chi mi conosce di persona sa l’amore e il rispetto che ho per il cibo. Chi non mi conosce, ma per sbaglio mi ha visto di persona, beh, facendo le debite proporzioni, può intuire la passione che provo per la tavola, tutta. Partendo dal design del tavolo al vasellame, ai bicchieri, dalle posate al tovagliato, compresi i dettagli. Immancabili la candela, alla sera, e i fiori, sempre. Fa parte della vita. Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia dove al cibo si dà del Voi. In tutte le espressioni e declinazioni. Per fortuna, come in molte famiglie italiane. Arrosti, stufati, bolliti, polpettoni, piuttosto che risotti, minestre e paste erano ben curati nei minimi dettagli. Dalle materie prime alle pentole, quelle più adeguate, dai tempi di cottura ai vari accostamenti delle portate, al pane. E naturalmente al vino. Allora vino da fiaschetteria o da damigiana, preso dall’amico contadino e travasato in bottiglia una volta alla settimana. L’apice della maniacalità si raggiungeva con la scelta dei salumi, quelli artigianali fatti in casa da quell’amico o dall’amico dell’amico macellaio di Brescia, Cremona, Parma, Alba… Mia madre era un’ottima cuoca, così come sua sorella, esattamente come lo era loro madre, mia nonna. La zia ebbe la fortuna di avere come suocero un cuoco d’eccezione (allora gli chef, in Italia, non li avevano ancora inventati), il Luigi Tadini da Nebbiuno, per gli amici «Louis».
Tra gli anni 30 e 40 cucinava divinamente al Palace Hotel di Milano, poi al Crispi, sin quando, nel ’43, i tedeschi, anziché deportarlo, fecero un’eccezione, di convenienza. Lo portarono a Villa Crespi, a Como, il comando generale nord Italia, a cucinare per loro. Si salvò grazie alla sua professione di cuoco. Sta di fatto che negli anni 60, quando andavo a pranzo dal Tadini, per me era sempre Natale. Mi impressionava la capacità di selezionare le materie prime e la fermezza nel controllo del tempo, la ferrea disciplina ai fornelli. I suoi segreti e la storia della batteria di pentole in rame, vissute ma lucidissime, che si portava in dote di ristorante in ristorante; aveva cucinato per migliaia di personaggi, molti dei quali hanno fatto la storia. I segreti per ottenere ottimi paté, ragù, risotti, ottimizzando al massimo le risorse di casa, spendendo poco per ottenere il massimo della qualità. La maestria con cui sapeva accostare le portate ai vari contorni, e ai vini. Ricordo quando con suo figlio Giorgio, mio zio, ottimo gourmand, andavamo in cantina a scegliere il vino: in religioso silenzio mi passava le diverse bottiglie, quella per l’antipasto, per il primo, il secondo e per finire quella per il dolce. Avevo 8 anni, fu una grande scuola di vita. Quando ci sedevamo a tavola, ogni volta mi dimostrava che è possibile mangiar bene spendendo il giusto. La ricetta? Semplice, diceva, basta avere buon senso, creatività, cultura e tanto spirito di sacrificio. Erano per me anni difficili, mi scontravo con la realtà quotidiana del cibarmi, 11 mesi all’anno in mensa. In colonia, a Spotorno o Piancavallo, con la Caritas Ambrosiana, con migliaia di piatti e bicchieri di ferro, bottiglie rigorosamente di plastica, colme di acqua, che guarnivano più di 50 tavoli, pronti ogni giorno ad accogliere 35 bambini scatenati e urlanti come falchi affamati, mentre come uccellini attendono nel nido le inservienti che passano per scodellare centinaia e centinaia di mescoli di spaghetti, di pollo o di immancabili e trionfanti polpette. Gli altri nove mesi ero uno dei tanti bambini alla Casa Natale Pio XI di Desio.
Nel refettorio c’erano regole ben precise. Cura della tavola, in tutti i sensi, quattro per tavolo, piatti di ceramica, bicchieri d’acqua con relativa brocca, tutto in vetro. Portamento retto, gomiti giù dai tavoli, posate usate a modo, non sbattere la bocca e parlare solo quando il cibo e ingerito. Poche regole, ma sane. A colazione e pranzo era consentito parlare tra i commensali, ma senza mai vociare sopra le righe. La sera invece, come i frati, si mangiava in rigoroso silenzio, mentre uno di noi a rotazione, sera dopo sera, leggeva un libro. Il direttore del collegio, don Antonio Caneva, era un prete severo, dalla mano pesante, dolce alla sua maniera. Uomo che ho odiato, stimato, oggi più che mai, per quello che mi ha insegnato, per come mi ha istruito e preparato per affrontare la vita. La retta mensile era bassissima, alla portata di mia madre, che lavorava sei giorni su sette in una fonderia; conoscendo bene la mia «irrequietezza» preferiva lasciarmi in quel collegio piuttosto che sapermi a casa solo, come un cane sciolto, nella periferia milanese. Lui, il direttore, Lucignolo, come lo chiamavamo noi, era sempre in cerca di offerte per i suoi ragazzi, soprattutto di cibo, solo se gratuito. Ogni venerdì, all’alba, si recava all’ortomercato di Milano, con il pulmino, un Fiat 850 beige, accompagnato da due di noi con la mansione di facchini privilegiati. Percorreva come un forsennato il mercato in lungo e in largo, chiedendo di offrire qualsiasi bene per i suoi ragazzi. Cassette intere di insalata o rape, di pomodori o barbabietole, di arance o carrube, di uva o nespole. Fino a quando il pulmino non era stracarico, non si tornava. Lui portava a casa tutto, proprio tutto il cibo che gli regalavano, in cambio di una nostra preghiera. In quegli anni, ho imparato ad amare e rispettare il cibo, a mangiare e apprezzare tutto, a non lasciare nulla nel piatto e saper dire grazie. L’unica cosa che non faccio più è pregare. Un giorno un benefattore offrì una quantità industriale di mortadella, che produceva, e per mesi e mesi si mangiò mortadella in tutte le salse: a mo’ di spezzatino nei sughi, a dadoni o a fette sottili, come merenda. Io proprio non sopportavo quella fritta: fette alte due centimetri, tagliate verticalmente come bastoncini impanate e fritte. Quei pezzettini di grasso proprio non mi andavano giù. Lui, Lucignolo, lo capiva, lo vedeva e mi faceva sentire un verme, con delle filippiche sulla gratitudine, perché facevo il difficile a ingoiare quei bocconi dono della Divina provvidenza. Per fortuna in tavola c’era il divino aceto, che mi toglieva il retrogusto del grasso, anestetizzandomi totalmente il palato. Così ho iniziato a capire il cibo, la cucina, attraverso le esperienze dell’ottima cucina di mia madre, fusa con quella del collegio, della colonia e con quella del mitico Louis. Dagli 8 ai 13 anni cucinavo piatti semplici, tanti. Così pasto dopo pasto, anno dopo anno, per necessità sono nati l’amore e l’attenzione per il cibo, il vino, la tavola. Il MasterChef Junior io l’ho fatto da autodidatta. Col tempo ho letto libri fondamentali, due pietre miliari: Le livre des menus di Auguste Escoffier, cuoco dei re e re dei cuochi, e L’arte di mangiare bene, un vero capolavoro, un manuale pratico sulla scienza in cucina, scritto dal grande Pellegrino Artusi. Negli anni 70 e 80 ho cominciato a fare le mie prime timide esperienze al cospetto di grandi cuochi: visionari, geniali, leggendari, pionieri, che per anni hanno innovato il sistema dell’arte culinaria di questa nazione, senza mai dimenticare le origini. Rispettando le tradizioni regionali, con un fine ben preciso, identificare il punti d’incontro, tra etica ed estetica, senza ingannare la gente con l’aria fritta al profumo di niente. Allora i ristoranti erano cari, ma accessibili con ottimi rapporti tra qualità, quantità e prezzo. Cominciai con Il Savini a Milano, Sabatini a Firenze, Cantarelli nella Bassa parmense, a Samboseto, per non parlare di un ristorante che adoravo, Paracucchi ad Ameglia. Quando seguivo le corse automobilistiche non perdevo l’occasione per andare dal signor Morini al San Domenico di Imola; se ero al Mugello, un salto da Annie Feolde e da Giorgio Pinchiorri era d’obbligo, così come dopo qualche chiusura impegnativa di Gente Viaggi, si andava con Giancarlo Pini e la redazione a consolarsi e gratificarsi nel Lodigiano, al Sole di Maleo, o da Papà Pacetti, alle spalle di Brignole, a Genova, o al Griso a Lecco. I miei cavalli di battaglia, in Milano e provincia, erano, e sono, Pierino Penati, il buon Masuelli, l’Osteria del Pomiroeu a Seregno, sino all’arrivo in via Bonvesin della Riva di Gualtiero Marchesi. Ma questa è un’altra storia…
Proprio in quegli anni ebbi la chance di andare dal mitico Paul Bocuse, da Roger Vergé e da Alain Ducasse. Vere colonne della gastronomia francese. Di Bocuse mi aveva affascinato, stupito e fatto riflettere un’affermazione lungimirante, per l’epoca: «L’egemonia culinaria francese durerà sino al momento in cui gli chef italiani si renderanno conto dell’enorme patrimonio che hanno a disposizione, sia dal punto di vista delle materie prime sia da quello delle innumerevoli sfaccettature delle tradizioni». Ma ormai lo sappiamo, noi italiani siamo specializzati nell’autodistruzione. In tutto e per tutto, cibo compreso. Oggi il rischio è alto. Dopo la bolla finanziaria e quella immobiliare, eccoci pronti per fagocitare quella della gastronomia. Oggi siamo diventati tutti chef e sommelier? No, anzi. Saper cucinare non basta per determinare il buon funzionamento di un ristorante. Chi si abbandona al romanticismo dell’attività, o all’estrema padronanza della tecnica, credendo che sia sufficiente per far quadrare i conti, sbatte i denti contro la realtà. L’avere in cucina e in sala troppo personale non paga. A farne le spese è il cliente, con il vino maggiorato all’inverosimile per cercare di aumentare i ricavi. Gestire un ristorante significa portare avanti un’impresa: per farlo è necessario avere basi manageriali e ragionare sul food cost. Spesso per sopperire alla scarsa remuneratività dell’attività molti reagiscono inventandosi il catering (pardon, il fuori casa) convinti di avere un facile e immediato riscontro economico e finanziario. Ma «trasportare il proprio modo di saper far cucina, fuori casa», come amano chiamare il catering i fratelli Cerea, ha le sue ferree regole, diverse dalla ristorazione. Ci sono veri professionisti in tutta Italia, preparati a questa attività: confrontarsi con loro lanciandosi nell’impresa senza aver studiato e sperimentato è impresa ardua, rischia di diventare un boomerang inarrestabile. Il cibo non è più nella bocca di tutti, dove dovrebbe stare, ma oggi è sulla bocca di tutti. A volte, assolutamente a sproposito. Basta accendere il televisore, e stai sicuro che a qualsiasi orario troverai lo chef con 32 stelle splendide splendenti, una per dente, o l’esperto (?!?) di turno, che iniziano a stracciarti l’anima sul come, dove, quando con chi devi fare da mangiare. Una ricetta mediatica composta da parolacce, insulti, piatti sbattuti, condita con tanta arroganza e rosolata per ore e ore tra sorrisi di convenienza, ospiti improbabili, battute da bassa macelleria da sciacquette di quarta che se la tirano da qui a Pechino. È proprio vero, sta diventando una cucina da incubo. Per fortuna, esiste il telecomando.
Questa grande abbuffata mediatica sta corrompendo e smantellando l’intelligenza che per anni abbiamo riposto sapientemente nel cibo. Molti dei grandi e blasonati chef passano più tempo a promuovere se stessi, in giro per il mondo o davanti alle telecamere, e a far pubblicità, di quello trascorso in cucina. Altri ancora si lasciano irretire dai social network, postando foto e messaggi anche in orari di lavoro. Ma come si può cucinare bene così? La concentrazione prima di tutto deve essere rivolta al piatto e a tutto ciò che durante l’apertura e il servizio ha a che fare con il ristorante. Sarebbe meglio e bene per tutti che gli chef rivolgessero l’attenzione al proprio lavoro senza perdersi in chiacchiere da social… Credo che sia il momento di togliere la maschera, al food come agli chef, e di tornare sulla terra investendo e puntando tutto sul recupero della tradizione. Lo scriveva Mario Soldati, nel suo bellissimo Vino al vino: «È straordinaria la spietata fretta che tutti, anche i più anziani, anche i più pii, mettono nel dimenticare». Concetto di grande attualità sentito e ribadito dal numero uno, per me, al mondo: Massimo Bottura. La mia è pura e vera passione, che oggi come allora mi prende ogni qual volta parlo di cibo. Anno dopo anno ho sentito l’esigenza di conoscere, scoprire, leggere, testare, approfondire questa disciplina della mente, sino al cucinare, non spesso, piatti complicati da vedersi ma in realtà molto semplici. Devo ammettere che sono un privilegiato, vivo con una donna che ha avuto la fortuna di vivere in un ambito familiare dove l’amore per il cibo era all’ordine del giorno e sua madre, la Marmotta, è una cuoca straordinaria, raffinatissima. Sarà genetica? O sarà per educazione? Resta il fatto che per esperienza la differenza, ancora una volta, sta nella cultura, anche a tavola. Resta il fatto che quando mi chiedono: «Qual è il miglior ristorante dove sei stato?», la mia risposta è sempre quella: casa mia. Ve l’ho detto, ho la fortuna di essere stato sempre viziato! A tavola.
Editoriale di Franz Botré da “Monsieur” n. 134 (maggio 2014)