Sono nato nel gennaio del ’55. Dieci anni più tardi ero un bambino maledettamente affascinato e incuriosito dal passato, ma soprattutto avido nel cercare di scoprire e interpretare il futuro, la tecnologia, la comunicazione. Quando era possibile, o concesso, passavo ore ad ascoltare la radio, a sentire i notiziari, la musica, le radiocronache delle partite di calcio. Un grande scatolone con grandi valvole, con frequenze nazionali di sufficiente qualità e qualcuna estera, che si sentiva malissimo. Guglielmo Marconi ebbi modo di «conoscerlo» tra il ’64 e il ’68. Allora studiavo a Desio, presso la Casa Natale Pio XI, dove nel 1857 nacque Achille Ratti. Una vecchia filanda, al centro della cittadina, a due passi dal Duomo. Dopo l’elezione a Pontefice di Ratti, la casa divenne un orfanotrofio e un museo. All’interno molti cimeli, oggetti dell’infanzia o provenienti dai Palazzi Vaticani: tra questi, il primo apparecchio radiofonico donato al Papa da Marconi. Quando a turno, noi ragazzi, si faceva da ciceroni alle persone in visita, bisognava spiegare tutto per filo e per segno. Fu quello il mio primo contatto con Guglielmo Marconi, con la sua storia. Altro genio italico, inventore della radio e della telegrafia senza fili, antecedente di tutti i wireless a venire. La rivoluzione tecnologica che ci circonda e sta cambiando il nostro presente, che porta la firma dei Bill Gates, degli Steve Jobs, i successi di Amazon e di Facebook, fino all’ultimo genio, il Jack Ma della cinese AliBaba, non è altro che un’eredità lasciata dal grande italiano.
In quegli anni il futuro c’era già, era la televisione. In casa mia arrivò solo dal 1963. La prima settimana ne fui abbagliato, poi mi accorsi che, tutto sommato, potevo farne a meno. Per contro, mia madre fu letteralmente plagiata da quella scatola con immagini e suoni. Quando ero in collegio, mi ero preso una piccola radio a batteria che ascoltavo di notte con l’auricolare tenendo il volume basso per non farmi sentire dagli assistenti. Quando c’era Sanremo, la sfida era trovarsi in tre o quattro al bagno per sentire chi aveva vinto. Bastava poco per divertirsi e conoscere, ma ci voleva coraggio per sfidare i ceffoni degli assistenti e le paternali di Lucifero, il castigamatti: Don Antonio. Quando ero a casa, invece, preferivo andare a letto leggendomi Drieu La Rochelle. Libri come La commedia di Charleroi, Racconto segreto, Idee per una rivoluzione degli europei, piuttosto che il Codice della vita italiana di Prezzolini o Il crepuscolo dei filosofi di Giovanni Papini. Alternandoli a giornalini come Blek Macigno o Guerra d’eroi, o gli immancabili Ciao 2001, Auto Italiana prima che nascesse Auto Sprint e prima di scoprire il giornale maschio per eccellenza di allora: Playboy. Le letture si alternavano seguendo il mio stato d’animo; quel che non mutava mai era il sottofondo della radio, sempre accesa, con le sue voci, le sue musiche, i suoi notiziari. In quegli anni le settimane di vacanza le passavo tra Spotorno e Albenga, tra Viareggio e Marina di Pietrasanta. Fu allora che nacque l’amore per l’alta fedeltà della radio, e quando dico radio intendo Radio Monte Carlo, la radio delle vacanze. Era come un amore estivo, che nasceva e poi finiva, con la promessa di reincontrarsi l’anno successivo: stessa spiaggia, stesso mare e stessa radio. Perché quella radio la potevi sentire solo nell’alto Tirreno. Iniziai ad ascoltarla nell’estate del ’66. Ma che bello era! Appagava i villeggianti, facendo sentire e apprezzare per la prima volta una radio diversa, con modo di comunicare diverso, con musiche diverse, anticonformista, spensierata, provocante, coinvolgente senza censure, senza nessuna barriera.
Come poter dimenticare la prima volta che ho sentito Françoise Hardy o Michel Polnareff o la mitica Je t’aime, moi non plus cantata da Serge Gainsbourg e dalla voce sensuale di Jane Birkin? Per non parlare del nuovo modo di dialogare con l’ascoltatore, come faceva Herbert Pagani, con il suo linguaggio colto, forbito, capace di passare da una poesia di Neruda a gag dissacranti a prendere per i fondelli con classe politici, attori, cantanti. Innovativa anche la réclame abbinata a nuovi sponsor: chi non ricorda l’inconfondibile «Muratti Ambassadorrrrrrrrrrr…». Era una boa fissa nello spazio dell’etere, come la sentivi, ormeggiavi. Poi, negli anni 70 l’apoteosi, Radio Monte Carlo viene captata anche a Milano. Negli studi arrivano personaggi come Luisella Berrino, Robertino, Antonio Costantini meglio conosciuto come «Awanagana». Diventa per i giovani un modo d’essere, di esprimersi, un saluto, un augurio di poter vivere e avere, il meglio dalla vita. Per non parlare di Federico l’Olandese Volante, che accende e fa esplodere la musica: il rock. Quello dei Deep Purple, dei Ten Years After dei grandi Led Zeppelin o dei romantici Jethro Tull. Rafforzano la compagine di Rmc dj e giornalisti come Ettore Andenna, Marco Predolin, Gianni De Berardinis, Max Pagani, Manuela De Vito… Che anni! La Rai reagiva con la Hit Parade di Lelio Luttazzi, Per Voi Giovani, con la musica di Bandiera Gialla e Alto Gradimento, o con Chiamate Roma 3131 mettendo a frutto la grande capacità e cultura di due eccelsi giornalisti: Luca Liguori e Paolo Cavallina. Da lì in poi le radio private invadono il mondo. Mi accorgo che più passa il tempo e più la mia vita è sintonizzata sempre sulla e con la radio, rimasta nel cuore come un giovane piccolo grande amore. La cosa bella è che negli anni, quando ho creato Monsieur e Spirito diVino, pur senza conoscerli di persona gli uomini di Rmc, come Monsieur Luigi Frateschi e Lorenzo, suo figlio, e Alberto Hazan si sono avvicinati alla cultura Swan. Sarà un caso? L’amicizia è un tacito contratto tra persone sensibili e virtuose. È un incontro tra simili. Aveva ragione Finardi quando cantava: «Con la radio si può scrivere, leggere o cucinare, non c’è da stare immobili lì a guardare… con la radio non si smette di pensare… amo la radio perché arriva dalla gente entra nelle case ci parla direttamente. E se una radio è libera, ma libera veramente, mi piace anche di più perché libera la mente». Vite parallele, come Monsieur.
Editoriale di Franz Botré da “Monsieur” n. 140 (novembre 2014)