E’ proprio in questo momento di decadenza del buon gusto, etico ed estetico, di una società ormai governata dall’ansia del tempo reale, dalla fretta, dal digitale, dall’info-snacking, da un Internet che tutto fagocita, che ogni esempio di meticolosa ricerca, quella che parte da lontano nel tempo, viene percepito come estremismo. Come manifestazione del diverso e, di conseguenza e automaticamente, una realtà da emarginare. La parola magica per isolare ed etichettare giovani e uomini che continuano a manifestare un impegno estetico, è «dandy». Cura, arguzia, cultura, originalità e tenacia maturata negli anni sono i valori più evidenti di un «Beau» per eccellenza: elementi che compongono un vero e proprio manifesto del dandy. Frutto di un esercizio autentico, che coinvolge l’intera persona per tutta la vita, con estrema pertinenza dell’essere, perché quella della distinzione non è un’arte che si apprende, così come non è una condizione che chiunque possa sostenere, o sopportare. È un po’ come il muto eroe che affrontò il carro armato in piazza Tienanmen.
Con l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, i dandy hanno perso parte del loro ruolo di specchio maledetto. In una società che non sa più stupirsi di nulla, quelli che restano fedeli alla propria convinzione di vita mostrano un carattere ancora più stoico. Attenzione però a non confondersi, a non farsi ingannare da giovani e meno giovani che nulla hanno da condividere con l’etica del dandismo, a non seguire la falsa traccia dei buontemponi visti anche questo gennaio al circo di Pitti, soggetti che ogni sei mesi celebrano il carnevale fiorentino e si travestono da «uomo nuovo». Perché dandy si nasce, non è l’agghindarsi una tantum per rincorrere qualche occasione mondana. Un esempio su tutti? Oscar Wilde. Aforista insuperato, conversatore magnetico, conferenziere coinvolgente, nel dialogo e nei testi espresse un genio incontestabile. L’uso spregiudicato del colore, i capelli curatamente incolti, le calze decorate di seta: ebbe la capacità di imporre l’immagine, al di là della persona. Fu il primo scrittore che riuscì a vendere se stesso prima dei suoi libri. Fatale gli fu la libertà che volle prendersi e affermare manifestando la propria omosessualità: il contesto sociale e l’epoca non glielo perdonarono. Ma ci sta, è il prezzo che ogni uomo deve pagare nella vita per avere la propria libertà. Ve lo scrive uno che è conscio di essere il due di picche dell’editoria, così com’è altrettanto conscio di essere però un uomo, giornalista ed editore, libero come pochi.
L’ho ripetuto spesso, e ci tengo a ribadirlo: sono convinto che il politically correct, la par condicio e il buonismo siano malattie letali, una peste che sta sterminando la nostra società. Ecco perché, parlando di libertà, gli attacchi terroristici avvenuti a Parigi agli inizi di gennaio mi rammaricano, si tratta di un attacco alla libertà di espressione, ma certo non mi stupiscono. Charlie Hebdo è un giornale che non ho mai comprato e mai comprerò, non mi appartiene per nulla. Perché, oggi come allora non mi identifico, non vivo, non trovo piacere nelle vignette proposte da quel prodotto editoriale, dal retrogusto vintage ancorato a tutti i costi alle idee e agli stili del Sessantotto. Rappresenta oggi uno strascico fuori tempo limite del clima di quegli anni, quando tutto doveva essere contestato, distrutto, abolito in nome della libertà, che poco alla volta si trasformò in anarchia totale. Sempre dietro gli scudi di un’ideologia ormai obsoleta. Le stesse ideologie che per 45 anni hanno difeso gli interessi personali dei politici, dei loro partiti di riferimento, delle loro correnti alternative, colluse con mafia, Stato, malavita, Chiesa e nobiltà, fregandosene totalmente delle vere esigenze della nazione, del popolo. No, non li sopporto più, e da tempo non mi faccio più ingannare dai rappresentanti di qualsiasi ideologia. Soprattutto, trovo gravissimo, oltre che molto significativo, lo sconcerto seguito ai 20 morti di Parigi messo a confronto con l’assoluta indifferenza per le duemila vittime trucidate lo stesso giorno, ma in Nigeria, da un altro gruppo di estremisti islamici, o per la bambina di nove anni imbottita di esplosivo sempre nel Paese africano, sempre perché Allah lo vuole. Segno dello strabismo, anzi della cecità con cui noi europei ormai interpretiamo la realtà che ci circonda.
Ho iniziato a lavorare e a conoscere la vita dietro le casse tipografiche Rossi e le casse francesi dal 1969, con il profumo del piombo, dell’inchiostro e del petrolio, componendo manualmente testi, carattere dopo carattere, corpo dopo corpo, con tanta voglia di fare, imparare, ieri come oggi, sempre. Dopo 46 anni di lavoro, credetemi, è da anni che mi sono tolto l’anello dal naso e che non mi faccio più ingannare da chimere ideologiche del passato. In questi anni ho però imparato a rispettare tutti e a farmi rispettare da tutti. Senza mai porgere l’altra guancia, come regola di vita. Lo ammetto, non sono un cristiano praticante, ma quando sfogliando Charlie Hebdo vedevo che trattavano tutto e tutti male: il Papa, la famiglia, le istituzioni, ebrei, islamici, polizia, Patria e Dio, Maometto, l’imam e l’Islam, così spudoratamente e volgarmente, beh, ammetto che quella irriverenza, che a molti piace, a me dà fastidio. Le leggo come bestemmie, come parole volgari, gratuite, disegnate, scritte provocatoriamente per offendere tutto e tutti.
Poi diciamocelo, se insulto il Pontefice, posso aspettarmi come sacrosanta ritorsione due colonne lapidarie di replica sull’Osservatore Romano, o al massimo «un pugno», come ha detto in maniera sorprendente Papa Francesco commentando i fatti di Parigi e il tema delle provocazioni. Ma da certi signori che vivono da secoli al di là di Lampedusa, verso sud, sud-est, che da sempre sono abituati a impalare gli infedeli, o oggi a segargli la testa, che cosa posso attendermi come risposta? Anche perché, siamo onesti: nessuno di noi, in Occidente, ha più voglia di giocarsi la pelle inventandosi crociate varie. È finita l’epoca di uomini con attributi che partivano, arrivavano (forse) a Gerusalemme e si buttavano nella mischia con lance, spade e scudi crociati. Li vedete, i giovani di oggi? Sembrano tutti dei Rambo, giubbini e pantaloni mimetici, scarpe che scimmiottano gli anfibi, catene, tatuaggi, paiono mercenari, nell’apparire, ma in quanto a sostanza dell’essere nessuno più ha voglia di mettere in gioco la vita. A meno che non sia virtuale: tutti grandi eroi ai comandi dei videogiochi di guerra, ormai anche i nostri feudatari, gli americani, ingaggiano bombardamenti da migliaia di chilometri di distanza grazie ai droni. Perché più nessuno ha voglia di morire per qualcun altro. Già dalla guerra del Vietnam, chi combatteva i «Charlie» erano soprattutto americani dalla pelle scura o ambrata, pochi i bianchi. Col passare degli anni nelle battaglie in Medio Oriente la carne da macello è stata sostenuta da migliaia di ragazzi ispanici, che hanno combattuto in Iraq e Afghanistan, sacrificando tra il vento del deserto le loro giovani vite e distruggendone altre. Sì, ma perché? Per che cosa? Oggi nessuno in Occidente ha più voglia di morire per la Patria, e tanto meno per la religione o per il petrolio. Il prezzo da pagare è troppo alto. In compenso, all’interno degli Stati islamici è cresciuta una grande voglia di rivincita e di vendetta. È così riaffiorata una finta e pretestuosa jihād contro la nostra civiltà e contro le altre religioni. Tutte balle: la verità è che ormai da anni una lotta violenta e incontrollata è esplosa all’interno dell’Islam. Dalla Nigeria alla Siria, dall’Iraq alla Libia, sunniti e sciiti, fondamentalisti, jihādisti, Isis ed Al-Qaeda, sempre pronti a seguire i dettami dei vari «Abu» picchio fritto, con tutti i loro Califfati. È in corso una guerra di potere al grido di: «consolidamento ed espansione». Consolidamento può anche essere, a casa loro; in quanto all’espansione, non credo, non voglio e non l’accetto. Almeno qui, in casa mia, esigo rispetto e obbedienza. Tutto questo nulla ha che vedere con la nostra religione o gli scontri di civiltà. Si tratta del grande gioco di una minoranza, ma decisa e ben armata, pronta a tutto.
Dobbiamo difenderci, controbattere con estrema forza e decisione, ma in coscienza non dobbiamo dimenticare che anni fa furono proprio gli americani ad armare e istruire militarmente quei soggetti, gli stessi che noi oggi chiamiamo terroristi. Se li osservi attentamente, puoi vedere che usano armi americane, russe, francesi e anche italiane. Quindi? Prima di sentenziare, disegnare, scrivere e sparare, sarebbe meglio sgombrare il campo dall’ipocrisia, che tutti fossero sinceri con se stessi e che imparassero a porsi quotidianamente dinnanzi allo specchio. Sì, lo specchio della storia.
Di Franz Botré
Editoriale del numero di Monsieur di febbario 2015 n. 143