LA PRIMA VOLTA CHE ANDAI ALL’ISLA GRANDE ERA IL 1982. ERA UN VIAGGIO ITALTURIST, ORGANIZZATO CON POCHI GIORNALISTI per far conoscere o proporre la «nuova» destinazione. Da Santiago de Cuba a Trinidad, da Santa Clara all’Avana con visita a Pinar del RÍo. Una settimana sballottato da est a ovest dell’isola per capire, vedere, conoscere le atmosfere, il mare, gli hotel, i ristoranti, i personaggi della cultura che dalla e dopo la Rivoluzione hanno dato vita a questa nuova realtà: il Socialismo. Gran bella storia, sulla carta. Qualcuno dei miei colleghi si lamentava perché si sentiva come un deportato. Io? Beh, felice come non mai. Se questo gli autorevoli colleghi lo chiamano lavoro… Mi sorsero però grandi dubbi sul «cosa» si intende con il termine lavorare. Cominciai a capire tanti dettagli e sfaccettature del mondo della comunicazione, del giornalismo. All’Avana si respirava un’aria pesantemente rossa. Per le strade, nei bar, sulle spiagge si incontravano veri e propri drappelli di soldati cinesi e russi. Per sette giorni due gentilissimi ufficiali cubani ci accudirono, marcandoci stretti (al loro confronto, Rosato e Cera sembravano stopper delle Marcelline), sempre, di giorno e di notte. Sempre, o quasi. La sera, una volta rientrato con tutti i colleghi in albergo, salutavo educatamente gli «accompagnatori», salivo in camera, mi mettevo jeans e maglietta, facevo passare mezz’ora e poi via. Scendevo passando dalle scale esterne, dalle cucine dell’albergo, evitando i vari controllori. E me ne andavo libero, in giro per la città, spesso sino al mattino. All’alba facevo il percorso all’inverso, salivo in camera, barba, doccia, giacca e via, altro giro e altra corsa. Una nuova emozionante e fantastica giornata iniziava. Piena di cose da vedere, leggere, conoscere, chiedere, sperimentare. Ma quanto è bello!
Nessuna sorpresa: questo è il cliché di come affronto la vita, da sempre. Da quel viaggio ho imparato a conoscere e amare i puros, le persone e soprattutto l’atmosfera che si respira a Cuba. Ma ho anche capito che comunismo e socialismo, con i loro derivati, non fanno per me. Anzi, che sono nettamente in contrasto con il mio modo d’intendere la vita. Perché? Perché da tempo non credo alla barzelletta che «siamo tutti uguali», che dobbiamo essere servo-assistiti dallo Stato, che non possano esistere le proprietà private e che tutto sia di tutti. Perché credo nella meritocrazia, nel rispetto delle regole. Socialismo? No grazie. Questo era il mio pensiero 33 anni fa. Dopo un terzo di secolo, non è cambiato molto, anzi, trovo demenziale e obsoleto sentire ancora oggi persone e politici aggrappati con le unghie alle loro ideologie, che hanno ancora il coraggio di parlare di destra, di sinistra, di centro. E non si sono accorti che quel mondo non esiste più, che è come parlare oggi di Attilio Regolo. Esistono solo opportunità di partito. A cui fanno coro e cassa di risonanza una marea dilagante di buonisti, di fanatici del politically correct, che non fanno e decidono nulla se non ciò che può essere conforme alla par condicio. Questa è una vera peste che sta sterminando la nostra società. Non hanno capito ancora che al centro degli interessi della nazione vanno messe le persone che ci vivono, che vanno appagate le loro aspettative, la loro serenità, la loro vita. Eppure basterebbe guardarsi attorno, conoscere e saper leggere attentamente la storia dei popoli, quelli seri, che hanno avuto la forza e il coraggio di reagire alle avversità e difficoltà mondiali, dal 1915 a oggi. Due nazioni su tutte: la Germania e il Giappone.
Dalla Rivoluzione cubana che ha affascinato una parte del mondo, ragionando di nazioni, di eccellenze nazionali, il mio pensiero corre naturalmente a un’altra rivoluzione, quotidiana: quella del cibo italiano, che invece il mondo non solo l’ha affascinato, ma l’ha conquistato. L’avvio di Expo dà il via a una vera rivoluzione, per il nostro Paese: la possibilità di mostrare su una vetrina globale il meglio del nostro saper fare in un settore, l’agroalimentare, connaturato al nostro Dna. Non un evento isolato, ma il punto più alto di una storia che fa parte di noi, delle nostre capacità, della bravura di tanti imprenditori italiani che stanno facendo grandi cose in questo campo. Un artefice, su tutti, di questa costante rivoluzione? Pietro Barilla. Grazie al suo intuito, con tenacia e ottimismo ha fondato la più grande azienda simbolo del cibo italiano per eccellenza, la pasta. La storia di Pietro Barilla è quella di una nazione che dà il meglio di sé quando investe sui propri valori. Perché se è vero che la «pasta» è diventata sinonimo di Italia, fin quasi a sconfinare nel folklore, è anche vero che sulla pasta con coraggio Pietro ha saputo costruire una delle più grandi e note multinazionali italiane, senza perdere per strada i valori di fondo del fare impresa. Ovvero, quell’attenzione al bene comune che da sempre è parte fondamentale dello spirito degli imprenditori illuminati (a differenza di quelli che io chiamo i «prenditori», affaristi senza scrupoli come ne ho incontrati tanti sul mio cammino, e di cui l’Italia è ancora zeppa). Chi meglio di Pietro Barilla poteva rappresentare la copertina di maggio, per affrontare in maniera non scontata il tema dell’Expo, la grande riflessione cui tutto il mondo è chiamato sul presente e sul futuro del rapporto tra cibo e sostenibilità? Per raccontare attraverso un’immagine la persona, più che il personaggio, di Pietro Barilla ho coinvolto il bravo Bruno Marrapodi, un giovane artista che con uno stile quasi elementare sa scavare in maniera molto interessante nella psicologia dei suoi soggetti. Sa coglierne l’anima, annegandola nel colore. Ne è uscito un ritratto che vorrei fosse il mio augurio in vista di questa Expo: largo al colore, certo, ai luccichii, alle curiosità: l’Esposizione è prima di tutto una grande festa mondiale. Ma ricordiamoci che al centro c’è sempre l’uomo.
Di Franz Botré
Da Arbiter 146 (maggio 2015)