FRANZ BOTRE’ – LA CRAVATTA ? SOLA CONTRO TUTTI

Arbiter-Giornale di Piacere e Virtù Maschili - Copertina n. 153, Dicembre 2015
Se l’abito è prosa e la scarpa poesia, la cravatta è di rigore la musica. Consente all’uomo di andare oltre, di uscire dalle maglie dei canoni tradizionali dell’eleganza e di potersi concedere qualche divagazione sul tema colore. Sì, perché la cravatta è il miglior specchio del tuo io. Perché lo specchio non mente mai, riflette sempre ciò che realmente sei, e come stai. Almeno a lui, non puoi mentire. Molti, però, non hanno specchi grandi in casa e se ce li hanno, spesso sono di legno. La cravatta non ha nessuna funzione pratica, è vero, ma è da sempre uno strumento con cui ci riveliamo ai simili, e anche alle donne. Avete mai notato che quando si parla di cravatte la conversazione diventa immediatamente più vivace? Perché in quei momenti entriamo nel territorio della leggerezza, dell’improvvisazione, dell’osare maschile! Parole che hanno ovviamente significati diversi, per uomini diversi. Il limite verso il quale ci si spinge è un fatto squisitamente individuale, culturale. Perché s’è vero che da una giacca pretendo che mi stia bene, da una cravatta pretendo che mi faccia sentire bene. Una cravatta colorata, di buona drapperia e costruzione, con un bel nodo stretto, stretto per bene al collo, è per me ogni giorno sinonimo di felicità, di sentirmi bene, di iniziare la giornata con buonumore. La cravatta la porto almeno 300 giorni all’anno, nella cabina armadio ne ho oltre 600. Le più vissute hanno più di 45 anni, sono delle bellissime e consunte regimental della Diva. Vale la pena riaprire il cassetto dei ricordi e capire il perché.

Erano gli ultimi anni 60, avevo 15 anni, già lavoravo e studiavo. La vita la passavo in tipolitografia. La sera, prima di avviarmi a scuola, dovevo lavare la macchina da stampa, i rulli di macinazione, quelli di inchiostrazione e quelli di umidificazione e pressione, con il risultato che puzzavo di benzina e petrolio lontano un chilometro, oltre che avere le mani conciate da buttare via. Non potevo certo andare in filovia, in tram ridotto così. Tantomeno presentarmi in classe. Quindi, molto rapidamente via la vestaglia nera, doccia, mani strofinate con la pasta lavamani e a bagno nella candeggina per qualche minuto, poi spazzolino per pulire accuratamente le unghie, una bella pettinata con relativa riga, una cravatta regimental al collo, la solita giacca blu e via verso la fermata della filovia. Era la mia divisa da dopolavoro, quella del Franz versione studente. Ho iniziato così a capire cosa vuol dire il rispetto per me stesso e per gli altri. Ho capito l’importanza della pertinenza dell’essere, di cosa vuol dire piacersi e piacere. Ma le lire erano poche, per cui cravatte poche. Sino a quando la signora Bice, la mamma dello zio Giorgio, scoprì la mia passione, e cominciò a regalarmi ogni qual volta mi incontrava, oltre alle solite (e beneamate) 500 lire in argento, delle bellissime cravatte. Una vera manna. Lei lavorava alla Diva, storico marchio della cravatteria di alta qualità. Oggi sono ben conservate nella mia cabina armadio, altre le usa mio figlio. La storia continua. Spesso mi capita di essere invitato a casa di amici per cena e il ritornello è sempre lo stesso: «Mettiti pur comodo, togliti la cravatta». La mia risposta è sempre la stessa: «Grazie, io sono comodo così!». La considero la colonna vertebrale dell’uomo, una struttura portante dell’immaginazione virile. Essa contiene allo stesso tempo il gusto dell’apparire e quello di non apparire, dell’appartenenza e della pertinenza dell’essere. Superfluo sottolineare che oggi, soprattutto nel tempo libero, si fa sempre meno uso della cravatta; mi piace però ricordare grandi pionieri dell’aviazione, Uomini come Alberto Santos-Dumont e Charles Lindbergh: dovevano trovarla tanto comoda da indossarla sia nell’hangar sia in volo nelle imprese epiche. Ma anche in mare c’erano uomini dal nodo ferreo, basti pensare al vincitore per tre volte dell’America’s Cup, Harold Stirling Vanderbilt, piuttosto che Raul Gardini. Come si può dimenticare la sua immagine, sul Moro di Venezia, in piena regata, con la cravatta scura che faceva capolino sotto il pullover di filo, ben stretta e annodata al collo: un nodo d’amore per l’eleganza e per il mare. Nodi dell’Essere, che appartengono a tutti, basta appunto essere, e non apparire.

In queste ultime settimane con Giancarlo Maresca abbiamo presentato in due serate, a Milano e a Roma, Vestirsi Uomo, il primo libro di Arbiter dedicato ai 17 modi di farsi il nodo della cravatta: in sala più di 300 giovani, maschi e femmine, selezionati da Baume & Mercier. Sapete chi era più attento e affascinato dal dress code della cravatta? Le donne. Ragazze giovani, fresche, pertinenti, belle, vestite bene che chiedevano, interagivano e che alla fine si ponevano una sacrosanta domanda: «Ma questi uomini, dove sono?». La verità è che oggi tanti maschi sono attratti dallo stesso sesso, altri non hanno ancora capito da che parte stare, altri stanno un po’ di qui e un po’ di là, altri ancora hanno sacrificato il significato di bellezza ed eleganza sull’altare della maledetta praticità. Vivono calati nei jeans, tra una felpa e un maglioncino, in tute da ginnastica, con ai piedi sneaker, comode quanto orribili se portate in ufficio e in città. In compenso, se per sbaglio hanno un guizzo di eleganza, scimmiottano i modelli improbabili dei servizi di giornali di moda «maschile» o peggio imitano cantanti, calciatori e attori da circo. Modello sfigati da fuori Pitti che a gennaio e giugno si esibiscono con tanto di pantalone da acqua alta, rigorosamente senza calze, scarpe slacciate modello Pluto, con doppiopetto; modello dello sviluppo, con camiciotti della nonna, t-shirt e sotto le barbe lunghe e curatissime si intravedono catene da neve color oro, e braccialetti, tanti braccialetti da tutto il mondo, in onore dell’elefante, della tigre, di Shiva, di una donna o di un uomo. Cribbio ma queste giovani donne come possono essere affascinate e innamorarsi di questi Scaramacai? Per fortuna a difendere i principi eterni che danno all’uomo dignità e rispetto ancora qualche Principe c’è. Mi riferisco a Sua altezza reale Charles Philip Arthur George, principe di Galles, indiscusso e autentico cavaliere dell’english style, sempre pronto in ogni occasione a difendere Lei, la cravatta, ormai sola e contro tutti.

Di Franz Botré, da Arbiter 153/IX