Dandy si nasce. Monsieur 143.

DI GIANCARLO MARESCA
STILL LIFE DI CESARE MEDRI STYLING DI CAMILLA GUSTI
ILLUSTRAZIONI DI MASSIMILIANO MOCCHIA DI COGGIOLA

090411_2742_rt
SEMPRE PIÙ POVERI DI STRUTTURE IDENTITARIE, gli italiani sono così stanchi da accettare di buon grado ciò che li spoglia, salvo fare la voce grossa contro fenomeni innocui. La stessa stampa che trascura il quotidiano drenaggio perpetrato dal gioco, da un’imposizione fiscale vessatoria, dal credito al consumo, dai vincoli con un’Europa che doveva essere dei popoli e si è rivelata delle banche, dalla deriva di una scuola che era nata per gli studenti ed è diventata dei professori, tuona invece con socratica gravità contro selfie, vi-
deogame o tatuaggi. Tutto regolare, perché è sempre contro i disarmati che i deboli esprimono la loro intolleranza. In questa decadenza governata dall’ansia del tempo reale, cioè dalla fretta, ogni esempio di meticolosità appare un estremismo che la crescente ipersensibilità al diverso cerca automaticamente di emarginare. Poiché la parola magica per isolare gli uomini che manifestano un impegno estetico è dandy, vengono etichettati così giovani che si limitano a portare giacca, cravatta e scarpe di cuoio, ragazzini che indossano qualche capo da mercatino, se non addirittura i buontemponi che al carnevale di Pitti si travestono da «uomo nuovo».
Il dandismo autentico coinvolge l’intera persona e per tutta la vita. È un conflitto epico, una sfida solitaria che richiede una fede illimitata e finisce quasi sempre male, perché partendo da un singolo viene avvertito da tutti come un fatto personale. Di fronte a un’individualità tanto evidente quanto indipendente, ciascuno si sente umiliato per non essere stato altrettanto capace di essere se stesso. Immersa nei social network alla disperata di ricerca di qualche «mi piace», la ciurma dei mediocri fa a gara per scoccare la propria freccia contro l’albatro che li sorvola, ignorandoli. Gli acidi dell’originalità e il maglio della coerenza il dandy non li scatena su piani superficiali come la politica o l’economia, che ci hanno tanto abituati alle fregnacce da non farci più caso, bensì direttamente nelle coscienze, dove attaccando i pilastri delle nostre certezze ci fa rendere conto di quanto siano esili. Rispettando meticolosamente ed esclusivamente la propria legge, il dandy mette in discussione tutte le altre. L’adesione al modello di vita che si è creato, incurante della derisione e del sacrificio, umilia un’umanità che a ogni angolo eleva idoli per poi di fatto ignorarli. Ingozzata di retorica fino a ingrassare il fegato come un’oca, la società può mettere in discussione qualsiasi cosa, finché lo si fa a parole, ma un dandy è più simile al muto eroe che affrontò un carro armato in piazza Tienanmen che a un imbonitore da piazza. Ciò con cui gli uomini cambiano le cose sono i gesti, non gli slogan, e il dandy è letteralmente posseduto dalla vocazione al cambiamento, anzi al sovvertimento. Sebbene i vezzi e l’acutissima sensibilità lo circondino di un’aura effeminata, non sempre immeritata, il mondo maschile gli deve molto.
Per tutto il ’700 e fino all’inizio dell’800, vigeva in Inghilterra un rigido regime di convenienze. Nessuno era qualcuno senza una decorosa reputazione, che andava costruita in sale e salotti governati da dame che imponevano tutto, dai balli ai convenevoli, dalle pettinature ai giochi. Anche con una buona nascita e rendita, sottrarsi ai loro imperativi significava essere esclusi dalla buona società, l’unica che contasse qualcosa. All’epoca delle Reggenza i giovani cominciarono a ribellarsi in modo scomposto, adottando maniere e abiti bizzarri, o per meglio dire ridicoli e sconvenienti. George Brummell, senza mai scrivere un solo rigo, guidò questo movimento facendo capire con la sola forza dell’esempio che non si sarebbe potuto battere un sistema con lo spontaneismo. Alla vecchia forma occorreva opporne una nuova, che suggerì con una metodica opera di risistemazione dell’estetica e dell’immaginazione maschile. Portò per primo in città i colori e i tessuti della campagna, immettendo nel vestire quella voglia di libertà e aria aperta che sarebbe stata alla base della civiltà estetica che chiamiamo il classico, che a sua volta non sarebbe nato senza questa silenziosa rivendicazione. Di lì a poco sarebbero nati i grandi club del remo, della vela, del golf, del tennis, della caccia, regno di un uomo che aveva trovato l’unica via per essere padrone di sé: dare ai propri legittimi piaceri la stessa dignità dei doveri.
Cura, arguzia, originalità e tenacia, la tetrade dei valori più evidenti del Beau per eccellenza, sembrano essere il manifesto del dandy, eppure le stesse qualità sono state possedute da personaggi, come Winston Churchill, che palesemente non rientrano nella definizione. Vuol dire che c’è qualcos’altro, un condimento che rende tutto così piccante da essere insieme fastidioso e intrigante. Il segreto è nell’artificio, un’aspirazione al gesto sublime che fa del dandy un uomo di spettacolo il cui palcoscenico è ovunque si trovi. L’attitudine a stupire con la naturalezza e la leggerezza, le stesse degli artisti circensi, concentrando lo sforzo espressivo in quello che ogni volta sembra l’unico momento per cui egli sia vissuto, rende il qui e ora più forte del sempre e ovunque. Un’eresia per qualsiasi religione o ideologia, che al di là delle differenze rappresentano tutte un culto dell’eternità e universalità. In una storia che celebra le formiche, il dandy è la cicala. E non è una condizione che chiunque possa sopportare. Il prezzo da pagare per una gloria talvolta passeggera, ma sempre conquistata remando controcorrente, è talvolta altissimo. Basti pensare alla vicenda di Oscar Wilde, che lo pagò fino in fondo. Aforista insuperato, conversatore magnetico, conferenziere coinvolgente, nel dialogo e nei testi concisi espresse un genio incontestabile, anche se le sue opere di lungo respiro reggono meno il peso del tempo.
on l’uso spregiudicato del colore, i capelli lunghi e le calze di seta, fu forse l’inventore dell’immagine, il primo scrittore a vendere il proprio personaggio prima dei libri. Gli fu fatale la libertà che volle prendersi con l’omosessualità, in un luogo e un’epoca che non gliela perdonarono. Morì esattamente nel 1900, chiudendo dietro di lui un secolo di solennità perché potesse finalmente iniziare quello della frivolezza. Con l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, i dandy hanno perso man mano buona parte del loro ruolo di specchio maledetto. In una società che non sa più stupirsi di nulla, quelli che restano sono forse ancora più eroici. Dobbiamo infatti considerare che non esiste un dandismo come gruppo, i cui membri si sostengano a vicenda, solo figure isolate che abbracciano questa condizione come un destino. L’ansia tutta moderna di classificare il gusto, come fanno le guide di vini o ristoranti, largheggia nel definire dandy chiunque abbia un aspetto vigilato e insolito. Alcuni lo sono per davvero, ma per lo più si tratta di vanità, eccentricità, sfrontatezza, provocazione, o un po’ di tutto questo messo insieme.
Sebbene il dandy si veda da un’aura che non proviene dal semplice abbigliamento, è possibile ispirarsi al suo mondo adottandone alcuni stilemi. Ecco qualche trucco. Poiché la pura avanguardia è territorio degli stilisti, che sono l’esatto contrario del dandy in quanto il loro scopo è quello di vedere gli altri e adottare le loro scelte, e non condannarle, non devono mancare ampie citazioni del passato. L’effetto più sicuro è dato dai colletti inamidati, la cui gestione richiede però la disciplina di uno spartano. Di sicuro effetto le giacche ben accollate, magari con maniche a tubo e spalle piccole, perché l’esibizione di qualità fisiche interromperebbe inesorabilmente l’incantesimo. Frequente uso dei velluti lisci, di gilet a doppio petto corti e ben aderenti, dei guanti e del cappello, con preferenza per quelli a tesa guarnita e non rivoltata. Cravatte sottili e papillon piccoli, annodati in modo maniacale. Occhiali tondi, in oro giallo o tartaruga. Pantaloni a vita alta, di larghezza e lunghezza perfettamente alla scarpa, perché non lascino vedere i malleoli. Scarpe con guardoli poco pronunciati, con forme affusolate e colori sobri. Diversamente non si metterebbero in luce le calze, dove il dandy distende con luminosità il magistero del suo gusto sopraffino. Estrosa ricerca negli ornamenti come gemelli, spille, pochette e boutonnière. Orologi da polso di forma rigorosamente vintage, o da tasca con catena. Lo spavaldo ricorso al bianco, anche d’inverno, è forse uno degli stratagemmi più efficaci per sentirsi un dandy, purché ci si ricordi che gli abiti non fanno un vero dandy più di quanto una stecca su misura faccia un campione di biliardo.

 

090411_2598_rt

monsieur11367 1

monsieur11407

monsieur11501 1

 

dal numero di Monsieur di febbario 2015 n. 143