PRIMA ANCORA DI ADDENTRARSI NEI NUMERI, IN FREDDE ANALISI DI MERCATO, O DI PRESENTARE PEZZI STORICI E COLLEZIONI INNOVATIVE, la parola che più spesso si sente ripetere agli artigiani-imprenditori della calzatura che stanno portando nel mondo questo verde spicchio di Italia è una: radici. Un termine che sa di terra, e sintetizza tutto quel patrimonio di storia, di conoscenze, di competenze, di caratteri che fanno di questo distretto industriale, tra Fermo, Ascoli Piceno e Macerata, nella parte meridionale delle Marche, un bacino di artigianalità e innovazione nel campo della calzatura che da solo rappresenta il 18,2% dell’export italiano di settore. E in quel «radici» sembra di riassaporare la passione e il desiderio di segnare la contemporaneità, rimanendo fedeli al proprio passato che mosse, a fine ’800, Alessandro Berluti a lasciare Senigallia portandone con sé il carattere. Perché solo qui, tra i colli dell’Appennino e il mare, si continua a intendere la calzatura non come «prodotto» ma come «opera». Un mestiere (non una «professione») fatta non solo di numeri e di marketing, ma soprattutto di pelle, di tinture, di cuciture e tomaie. «I mercati, nel mondo delle calzature, oggi, non si fanno più distrarre dallo “stile”, o dal prodotto “fashion”, ma sono tornati a chiedere valori reali, tangibili. E sono convinto che siamo in grado di darli prima di tutto perché questi valori sono parte intrinseca del nostre essere nati e cresciuti nelle Marche», spiega con orgoglio Gianni Gallucci, direttore della Gianni Gallucci Atelier, fondata nel 1955 a Monte Urano. Su quali siano questi valori che al di là delle mode e degli alti e bassi del mercato sempre qui riportano chi cerca scarpe di qualità è chiaro Giuseppe Santoni: «Il saper fare manuale, il rispetto per le tradizioni e la continua apertura alla creatività; aggiungerei nel nostro caso la cultura per la qualità, la passione per i dettagli, l’amore per la bellezza», spiega, seconda generazione alla guida dell’impresa fondata nel 1975 a Corridonia dal padre Andrea. Uno dei simboli dell’eccellenza di questa terra, capace di non derogare mai dalla lavorazione fatta a mano nonostante la crescita esponenziale del marchio, che oggi esporta oltre il 70% della produzione. Ma qui mantiene salde le sue radici, trasformando la tradizione in elemento di differenza: «Alcuni elementi artigianali sono diventati dei veri e propri segni distintivi del marchio», continua Santoni, «come la “velatura”, la nostra particolare tecnica di coloritura manuale della scarpa che conferisce al prodotto un colore profondo, ricco di sfumature, e soprattutto unico perché realizzato a mano».
Le radici sono un portato collettivo, che va al di là del singolo marchio o tradizione produttiva, e rappresentano ormai patrimonio comune della rete diffusa di piccoli artigiani. Perché verso le tomaie, le fodere, i fondi in cuoio e gli accessori ricavati da metalli di pregio, che compongono un modello da calzare, i marchigiani hanno sviluppato un vero e proprio sentimento di appartenenza: la scarpa è identità culturale. Parla proprio di «carattere» Gianni Giannini, proprietario e designer di Doucal’s: «I valori della storia, la tradizione dell’artigianato locale fino alla peculiarità caratteriale dei marchigiani si riflettono tutte nella schiettezza, nella genuinità e unicità del prodotto. La costanza, la dedizione delle persone nelle singole aziende sono la linfa vitale di questo distretto di eccellenza». Schiettezza, ovvero scarpe belle, dirette, che «guardano negli occhi» chi le indossa e ne sanno interpretare le esigenze. Ma anche unicità di un artigianato che ha attraversato i secoli: ecco la miscela vincente.
A sud di Ancona e a nord di Ascoli Piceno, esistono interi paesi la cui economia dipende da questo manufatto. Le statistiche dicono che ogni tre scarpe prodotte in Italia, una è stata montata e rifinita all’interno di un’azienda marchigiana. Si tratta di circa 65 milioni di paia, il cui prezzo medio negli ultimi anni è cresciuto in maniera costante. Il declino dei produttori di fascia medio-bassa, spinti fuori mercato dalla concorrenza dei Paesi a basso costo di manodopera, è stato in parte compensato dal rafforzamento dei brand di fascia alta che operano in proprio: il gruppo Tod’s di Diego Della Valle con i marchi Tod’s e Hogan, Alberto Guardiani, lo stesso Santoni… Si aggiunga a questo l’incremento delle produzioni per conto delle grandi aziende del comparto moda non marchigiane, a cominciare da Prada, che lungo l’Adriatico trovano quel know-how diffuso del sistema distrettuale che è in grado di assicurare qualità manifatturiera, flessibilità e una copertura totale della gamma di prodotto.
Un esempio, in questo senso, è dato da una piccola realtà come Giano, guidata da Enrico Paniccià (che indica in «passione del fare, l’etica e il legame con il territorio» i punti di forza della sua azienda), dai cui laboratori escono per esempio i Cortos firmati La Martina, che reinterpretano il classico stivale da polo argentino in chiave urbana. «Nelle Marche abbiamo trovato nel partner scelto una grande sensibilità artigianale; capacità tecniche, quindi, ma anche reattività e capacità di rispondere in modo efficiente e dinamico all’esigenze del mercato hanno contribuito alla crescita reciproca e all’affermazione in mercati esteri di primaria importanza», conferma Enrico Roselli, ceo di La Martina Europe, per cui Giano produce. Non c’è modello conosciuto e calzato nel mondo che un brand della moda non possa affidare a una delle oltre 1.500 aziende produttrici di scarpe presenti tra le province di Fermo e Macerata, cuore del cluster calzaturiero, dove ogni borgo, coerentemente con l’indole campanilistica e con la volontà di perfezionamento dei suoi tenaci abitanti, ha sviluppato la propria specializzazione: Montegranaro spicca nell’ambito della produzione maschile, Monte Urano in quella per bambino e Sant’Elpidio a Mare nella donna, mentre alcuni centri del Maceratese hanno mantenuto la rotta manifatturiera ben salda su articoli vulcanizzati con fondo in gomma e altri ancora si sono spostati dalle scarpe alla componentistica (tacchi, suole, solette ecc).
Una capacità di leggere il mercato che ha fatto la differenza tra chi si è chiuso nei propri confini, soccombendo, e chi ha saputo mettere «i propri attrezzi nello zaino», come fece Alessandro Berluti, e guardare al mondo. Consapevoli che l’essere marchigiano è un valore, non una tara provinciale da annegare nell’indistinto. «L’indiscutibile ed unica artigianalità che ha fatto delle Marche la capitale assoluta della calzatura è da sempre il fiore all’occhiello della nostra storia», conferma Cesare Paciotti, che ha saputo aggiungere una spiccata carica sexy al patrimonio artigianale. «Nonostante la globalizzazione sempre più presente e quasi incombente, lavoriamo con un crescendo di dedizione e professionalità per difendere e mantenere alto il valore del “made in Marche”: ed è proprio per questo che le nostre scarpe sono ancora interamente assemblate a mano da maestri artigiani del posto. Utilizziamo pellami pregiati e dove i più piccoli dettagli non vengono lasciati al caso». «Direi che il plus fondamentale è la capacità di inventare e di creare sempre nuove lavorazioni che caratterizzano molto le collezioni, me che siano ancora tutte portate avanti in modo artigianale e totalmente realizzate nelle Marche», testimonia Stefano Cioccoloni, ad della Aldo Bruè di Monte San Pietrangeli (Fermo). Mentre a Bruxelles si discute, senza arrivare al dunque, sull’eterno e cruciale tema del «made in», ecco che qui gli imprenditori vanno oltre, e si fanno forti di un made in ancora più specialistico e distintivo. Perché, una volta raggiunta non solo l’eccellenza, ma anche il riconoscimento dei mercati, sarebbe una follia limitarsi a conservare in modo statico questo patrimonio. Quella delle Marche è stata infatti una lunga rincorsa, iniziata dalle retrovie della scena calzaturiera nazionale, fino a raggiungere la leadership con la stupefacente accelerazione avvenuta durante gli anni 60 e 70 del secolo scorso. È vero che già nel secondo ’800 le scarpe prodotte tra Fermo e Macerata si vendevano in Italia, nei Balcani e in varie parti del Mediterraneo; ma le due guerre mondiali, contrariamente a quanto accadde in altri distretti calzaturieri, comportarono più danni che benefici perché i fermani, che nel frattempo si erano specializzati nel produrre pantofole, non riuscirono a trasformarsi in qualificati fornitori di calzature militari. Il censimento del 1951 pone la calzatura marchigiana, per numero di aziende e addetti, dietro Lombardia, Toscana, Piemonte e Veneto. Ma nei 30 anni successivi si compie il miracolo: decuplica l’occupazione, aumenta in minor misura la dimensione media delle imprese, si moltiplica il numero delle ragioni sociali con un’impennata a tre cifre (+230%) tra il 1971 e il 1981. I motivi? Primo, lo storico spostamento delle produzioni da Nord a Sud per seguire i costi inferiori di produzione: da Vigevano a Fermo, poi da Fermo al Salento e, infine, fuori Italia. Il secondo è l’abbondanza di contadini scesi dalle montagne alla ricerca di un impiego stabile e ben disposti a diventare operai delle scarpe. Il terzo sta nel modello di distretto, fatto di tante piccole imprese indipendenti, che nelle Marche trova terreno fertile per ragioni storiche e culturali. I marchigiani lavorano bene, consegnano per tempo e rassicurano i committenti, compresi i grandi gruppi internazionali della scarpa, che affidano loro sempre più paia: è il periodo d’oro della calzatura di Fermo, Macerata e Ascoli. Le condizioni mutano negli anni 90, con l’ingresso produttivo di Paesi dell’ex blocco sovietico (Romania, Albania ecc), dove la manodopera costa molto meno, e poi con l’arrivo della concorrenza cinese. Dal 1995 al 2011, le Marche hanno perso più di 800 aziende calzaturiere e oltre 7mila addetti. Eppure, come spesso accade, la perdita complessiva si è trasformata in occasione di crescita per quelle realtà che hanno affrontato la situazione con idee chiare e programmi capaci di unire valorizzazione del patrimonio del passato e visione innovativa del futuro. Un po’ come seppe fare, quando «globalizzazione» significava emigrare a Parigi, il «vecchio» Alessandro da Senigallia…
Da Arbiter 147/III giugno 2015