Da anni ho abbandonato alcune forme di comunicazione, per me incivili e ipocrite, di questa ipermoderna società. Come quelle della par condicio e del politically correct. Per contro, ho affinato ed elaborato, nel dialogare come nel comunicare, la disciplina dell’acciaio. Che vuol dire essere sempre pronto a sfidare a «duello» le asperità della vita per difendere i principi e le regole eterne che danno all’uomo dignità e rispetto. Esercizio non facile: ci vuole un minimo di coraggio, una buona dose di abnegazione e bisogna conoscere i codici e le regole della vita. Spesso vorrei fingere di non vedere, di non capire, girare lo sguardo altrove, ma non riesco, è più forte di me. Del resto, questo è il mio grande lusso, dire ciò che penso e difendere ciò in cui credo, nelle piccole come nelle grandi cose, nella vita come nella professione. Sono conscio di essere il due di picche dell’editoria, ma a differenza di molti altri autorevoli colleghi, agisco da uomo libero, senza anelli al naso o catene alle caviglie. È un modo tutto mio di affrontare la vita, una forma mentis in base alla quale ho messo in discussione i sistemi comportamentali, dando invece sempre più valore ai canoni fondamentali del mio vivere, del buon senso, cercando sempre di tenere al centro l’interesse e il bene della collettività, in casa come in azienda, per strada tra la gente o solo con il mio grande amico: il mio cane. Favorendo e dando spazio in ogni occasione all’etica piuttosto che alle policy, al coraggio più che all’aggressività, a una decisione presa con riflessione e serenità piuttosto che a una risposta codificata, a una stretta di mano guardandosi negli occhi piuttosto che 10, 20, 100 pagine di contratto scritto in legalese. Ma voi non vi inferocite quando vedete un signore o una signora lasciare con indifferenza sul marciapiede i bisogni del proprio cane? O quelli che in bicicletta spadroneggiano sul marciapiede, o contromano? Per non parlare dei pedoni quando attraversano sulle strisce: cellulare all’orecchio, testa bassa sullo smartphone, incuranti di tutto e tutti; si buttano in mezzo alla strada come dei kamikaze. Ancor peggio gli scooteristi (i motociclisti sono una razza diversa…). La maggior parte di loro rientra nella categoria degli imbranati e frustrati dal traffico. Li vedi che partono al semaforo come tanti albatros, arrancando per conquistarsi un minimo di equilibrio, poi un filo di gas e finalmente via come tanti ubriachi per la città. Ti girano attorno come stormi d’uccelli migratori a destra, a sinistra, dietro, davanti, intrufolandosi ovunque, zigzagando tra le corsie, sempre con il cellulare infilato sotto il casco. Fanno di tutto tranne stare attenti, veri virtuosi circensi mentre passano con il rosso, saltano lo stop, ti tagliano la strada, ti divellono lo specchietto laterale o ti fanno la fiancata con il casco di scorta. Se per caso, poi, fai notare a questi geni della società che stanno facendo qualcosa che non va, di sbagliato e di pericoloso, il minimo che ti prendi è un vaffa. Come rimpiango il ’700 e l’800! Dico questo perché sono tutti esempi tratti dalla vita quotidiana di questa nazione, che ha perso il minimo senso di cosa significhino parole come urbanità, civiltà, serietà, rispetto, valori e l’importanza fondamentale che hanno le regole e la disciplina per una società. Il peggio è che tutta questa furbizia, scaltrezza, corruzione, negligenza, maleducazione, malcostume hanno attecchito, ramificandosi in tutta la nostra società, a tutti i livelli, plasmando da nord a sud un Paese dove imperano il disordine e il caos. Dall’economia all’informazione, dalla politica alla magistratura, dal sistema bancario allo sport. La rabbia è che, nonostante tutto questo degrado, siamo riconosciuti e rimaniamo una delle nazioni di gran successo della storia del mondo. Pensate se oltre l’Italia avessimo fatto anche gli italiani?!? Comprendo il buon Roberto Vecchioni, quando prende cappello e dice ciò che pensa. Quello che non sa, o finge di non sapere, o semplicemente non dice, è che noi siamo da secoli un feudo assoggettato alla Sicilia. Ma la storia, caro professore, ahinoi non si può cambiare. Quella Terra infatti è sempre stata, storicamente, un centro nel potere nel Mediterraneo, cuore del mondo antico. Poi dall’800, con gran parte della nobiltà siciliana collusa con la Corona d’Inghilterra, ha allargato il suo potere negli equilibri europei. Dal 1943, il potere della onorata società siciliana va oltre, diventa mondiale, l’isola è di fatto un feudo di traffici americani. Noi, caro Vecchioni, possiamo al massimo essere considerati suoi umili vassalli. Ma non per questo dobbiamo stare muti e rassegnati: non tutti i mali vengono per nuocere, l’importante è vedere sempre il bicchiere mezzo pieno e sapersi mettere in gioco tutti i giorni. Avere il coraggio di semplificare gli atteggiamenti, cercando dentro di sé la capacità di evolvere, di sapersi adattare rapidamente ai mutamenti, diventare più flessibili, tornare ad avere la volontà di stupirsi, a porsi grandi traguardi collaborando in grandi competizioni, ritrovare l’illuminazione istintiva; senza mai rinunciare ai preziosi insegnamenti dettati dall’esperienza. Esattamente come lo slogan coniato dall’amico Giulio Malegori: «Non più adulti, ma bambini o vecchi».
Ma come trovare gli obiettivi, analizzare i problemi, le alternative, prendere decisioni, pianificare, sistemare, progettare e programmare il futuro prossimo? Semplice, basta diventare Antifragile, per «prosperare nel disordine». Esattamente come recita il titolo dell’ultimo libro (pubblicato da Il Saggiatore nel 2013, un volume che non può mancare nella vostra libreria) scritto dall’economista Nassim Nicholas Taleb, lo stesso scrittore de Il Cigno Nero, l’uomo che aveva previsto il crac finanziario americano prima di tutti, l’uomo più odiato dai banchieri, quanti spunti potrebbe prendere in Italia oggi… Una chiave di lettura intelligente della trasformazione, quella vera e radicale. In questa era dove la volatilità impera, il disordine e l’incertezza diventano regole e i cambiamenti sono continui e profondi, tutto diventa più fragile. Gli individui, le organizzazioni private e pubbliche, le aziende sono più fragili; cosa possiamo contrapporre alla fragilità? Certo, potremmo contrapporre la robustezza. No, Taleb introduce un nuovo, ma antico, concetto, l’uomo antifragile, che va ben oltre a quello di robustezza. Perché, dice lo studioso, se il fragile si rompe, il robusto resiste ma non si modifica, l’antifragile addirittura trae vantaggio dall’incertezza, prospera nel disordine, comprende e ama l’errore che lo spinge a rimettersi in gioco, a cambiare per meglio adattarsi all’ambiente esterno, senza mai ritirarsi dalla lotta, come fecero i nostri nonni.
È una storia che conosco bene, una materia che esercito da almeno sette anni nella mia vita quotidiana, mi appartiene, ecco perché ho voluto trasformarla in una storia di copertina. Ma chi prendere come testimone della storia? Uno poteva essere benissimo Bernardo Caprotti, uomo che stimo e ammiro; sì, lui avrebbe potuto essere la cover. Così come avrei potuto commissionare l’opera di copertina ritraendo Matteo Renzi: lo conosco da anni, abbiamo chiacchierato a tu per tu per pochi minuti in varie occasioni, sin da quando era sindaco di Firenze; Renzi è il simbolo di un’Italia antifragile che cerca di costruire un futuro sulle macerie ereditate da un malgoverno trentennale. E lo vuole fare cercando di andare oltre le ideologie cui si sono arroccati i partiti per mezzo secolo allontanandosi dal loro vero obiettivo, lavorare per il benessere del popolo (Germania docet!). Matteo vuole andare oltre, mi pare, mettere da parte le ideologie e unificare un pensiero che vada al di là di destra e sinistra. Io sono un uomo di destra, ma la mia destra era quella di Minghetti e La Marmora, non certo quella del Ventennio o di questi giorni, e non ho paura di esprimere anche questo giudizio politico netto sull’attuale Presidente del Consiglio: sono un antifragile, dico quello che penso. Ma per esprimere il tema di copertina sono andato oltre. Ci voleva un personaggio che, con la sua antifragilità, avesse dato un segno vero di rottura col bla bla bla di questo Paese. Chi meglio di Sergio Marchionne, ceo di Fiat Chrysler Automobiles poteva rappresentare questo concetto? In dieci anni ha trasformato una delle più fragili aziende italiane in un player di livello mondiale, senza cadere nella trappola dei cigni neri, mettendo sostanzialmente in pratica (anticipandole!) le idee di un trader-filosofo come Nassim Nicholas Taleb. Ha fatto grandi cose, ma gliene manca una: riconoscere che il Gruppo che oggi guida nel mondo per 45 anni ha vissuto sulle spalle dell’Italia, che ha salvato e risalvato e risalvato la Fiat investendoci qualcosa come, malcontati, 17 miliardi di euro di aiuti pubblici, alla faccia di tante piccole e medie aziende che, invece, siano fragili, robuste o antifragili, hanno dovuto e devono aiutarsi da sole, oppure fallire. Certo, Marchionne a quei tempi non c’era, non è tecnicamente un problema suo, ma sarebbe dovere di uno Stato serio porre questa questione, così come sarebbe un gesto di antifragilità, da parte di Marchionne, regolare finalmente questi conti con l’Italia, stendere un bel piano di rientro e restituire al Paese quello che è stato tolto. Magari proprio cominciando a «pagare» allo Stato l’Alfa Romeo, su cui oggi la strategia-Marchionne ha grandi disegni, mentre più nessuno si domanda come questo fiore all’occhiello dell’automobilismo italico sia arrivato alla Fiat. Significherebbe, per esempio, alleggerire gli italiani non di una, ma quasi di due manovre finanziarie… una manna dal cielo per un Paese così fragile. Nell’attesa che qualcuno, a Detroit, rifletta su questa provocazione, facciamoci a vicenda un augurio per un buon 2016. Sicuramente antifragile.
Di Franz Botré (da “Arbiter” 154/X, gennaio 2016)